Memoir

Memoir, di Giuseppe Cecconi

Quel 17 marzo 1955, mi dissero poi, era freddo. 
Ed era un giovedì. Gli inverni erano ancora lunghi, a quel tempo. Il giorno prima c’era stato il mercato, ed aveva lasciato sulla strada scatole vuote e cassette di legno. Mia madre guardò il soffitto mentre partoriva. C’erano quattro putti dipinti, uno per ogni angolo della grande stanza. Una decorazione con settecentesche pretese fatta da un imbianchino del paese che aveva visto nelle grandi ville di Firenze qualcosa di simile. Un amico di mio padre che chiamavano il Re, forse per il suo altero portamento nonostante l’umiltà del mestiere.
Uno dei suoi ultimi lavori fu l’insegna dipinta nel negozio di frutta e verdura della piazza. Prese male le misure. “Frutta” era ben scritto e proporzionato, ma occupava quasi due terzi dell’insegna. Cosicché “Verdura” era ristretto nel terzo rimasto, con le ultime lettere ridotte al corsivo e rinsecchite nel vano tentativo di recuperare spazio . 
La levatrice si chiamava invece Marianna. Una signora robusta e ben piantata che faceva nascere tutti. Si recava nelle case all’arrivare delle doglie e chiedeva da bere. Un liquorino in un piccolo bicchiere da rosolio. A casa, poi, col marito Andrigo, beveva con più calma, e difficilmente del bottiglione di rosso rimaneva qualcosa. Mio padre raccontava sempre (Andrigo era fratello di mio nonno, il Moro) che in cima al pianerottolo della casa di Marianna c’era un grande specchio e che Marianna e Andrigo, abbracciati l’un l’altro mentre salivano le scale per gli effetti del vino, ogni volta si spaventavano dei due individui che vedevano riflessi, e rimanevano qualche minuto così, immobili, a chiedersi come quei due individui fossero entrati in casa.
Così nacqui. Con mia nonna Beppa che nella stanza accanto metteva ciocchi nel camino. La prima aria che ho respirato è l’odore di legna bruciata, che riconoscerei fra mille profumi e che ancora tanti anni fa si sentiva nel corso, all’arrivare dell’inverno, quando il gasolio era un lusso da città.
E al fuoco è ancora legato il mio primo ricordo. Un diavolo di stagno che piangeva. Una piccola statua raffigurante Belzebù che incautamente qualcuno aveva messo vicino al camino. Ricordo che questo diavolo piangeva lacrime di stagno,fino a sciogliersi del tutto. Io lo guardavo dalla mia sedia, impotente. Avrei potuto avvisare la nonna, che era indaffarata con la stufa, ma non lo feci. Mi piaceva vedere il diavolo che si scioglieva, e non per cattiveria perché io, all’epoca, non sapevo nemmeno se il diavolo era un poco di buono o una brava persona.

E la pietra. Ricordo la pietra,le vecchie scale ,il muro del cortile non intonacato, il pavimento della cucina,le lastre del tetto. La mia casa era costruita con lo stesso materiale delle caverne, …smussi, mura, camini…era un materiale vivo: d’estate si riempiva di lucertole e di insetti, d’inverno di muschio. E qualche sasso c’era sempre nel presepe, vicino al laghetto di carta stagnola, con la farina sopra, per l’effetto neve. Oltre ai protagonisti, troppo scontati per piacermi, mi affascinavano le statuine in terracotta più vecchie: un pescatore che dormiva, una donna col secchio, un ciabattino. Poi le case in legno con la lucina dentro ,le palme finte di velluto verde e il muschio,quello vero,che con mio padre andavamo a staccare dai muri umidi lungo la strada che porta al lago.
Per Natale ricordo il Topo, un poveretto che abitava da solo sotto l’androne, e veniva da noi per bere un bicchiere. Mio padre sosteneva che quell’uomo si trasformava in topo, appunto, tutte le notti, e vagava per le case del corso. Una volta vidi la sua casa: una stanza con pochi mobili, piena di legna e segatura, e mi convinsi che mio padre aveva ragione. 

Da piccolo, per il mio carattere poco tranquillo ed i miei capelli ricci e folti, fui presto soprannominato “il leone” dai bottegai del corso, e lì scorrazzavo avanti e indietro tutto il giorno.
Ai tempi delle elementari abitavamo all’ultimo piano: io dormivo in una stanzina di passaggio. Di fronte al letto c’era una vetrina, piena di volumi dell’enciclopedia Treccani. 
Spesso veniva a trovarci Frida, il nostro cane lupo femmina, che mi faceva da accompagnatrice all’asilo. Aveva il brutto vizio di abbaiare dietro auto e moto in corsa, e di questo morì, falciato da un motociclista alla periferia del paese.

Per me i luoghi magici erano due, uno era la soffitta, ove mi stabilivo intere giornate a giocare coi soldatini o a sparare con la carabina dal terrazzo, l’altro era il nostro orto.
Era in realtà un pezzo di giardino con annessa una vecchia stalla, che a me faceva paura. Veniva usata anni prima come cantina per pigiare l’uva che veniva dai poderi in grossi tini. Ricordo i giorni passati laggiù, fra marmellate che bollivano nel pentolone di rame. Una volta trovai una specie di coprivivande in alluminio, con termometro incorporato. Me lo misi in testa, come un elmetto, e sentii delle vibrazioni strane, che ancora oggi ricordo bene. Pensai a civiltà aliene, ad altri mondi, che forse non erano molto lontani dal mio orto. Quella notte dormii con mia madre. 
Altri mondi. Li vedevo nelle copertine di “Urania”, che leggeva mio zio, ed anche, chissà perché, nei rebus della “Settimana Enigmistica”, sempre eterei, surreali… 
Ho sempre pensato a questa dimensione magica dell’infanzia, che oggi si è persa. Più che bambini eravamo pezzi della natura, prolungamento dei boschi e degli animali, pezzi dell’ingranaggio, insomma, e non altra cosa rispetto a questo.
Avevamo i nostri riti, ereditati da una cultura umana terrigna, antica: il bosco ci parlava, il vento e il temporale ci mettevano paura, nella primavera il nostro sangue ribolliva...